Gigi Meroni, il calciatore bohemien
‘Lei è di un’altra generazione e, forse, non può capirmi; io faccio così non per esibizionismo, ma perché sono così; perché anelo alla libertà assoluta e questi capelli, questa barba sono uno dei segni di libertà. Può darsi che un giorno cambierò quando la mia libertà sarà un’altra’
Calciatore-artista. Beatle italiano. Esteta. Bohemien. Ye-ye. Ribelle di nascita. Talento puro. Ala destra. Numero 7. Funambolo della fascia. Anarchico in campo e fuori.
Gigi Meroni appena maggiorenne esordisce col Como in serie B; un anno dopo, nell’estate del 62, viene acquistato dal Genoa.
La sua vita è un continuo crescendo. Le prestazioni in campo e il personaggio vanno di pari passo. Amatissimo, genio assoluto, una farfalla, il Calimero dei tifosi granata, passa nel 1964 al Torino per una cifra mai pagata per un ventenne, si consacra lì, la piazza ne scongiura la partenza alla Juve minacciando rivolte, interrompe la striscia della Grande Inter di Helenio Herrera con un pallonetto beffardo dal limite dell’area, raggiunge la Nazionale e gioca i mondiali del 1966 in Inghilterra, patria della beat generation, proprio lui, il giocatore più beat e controcorrente del calcio italiano.
Lottatore e artista, amava i dribbling e odiava i rigori, amava le azioni, la velocità, le finte ubriacanti, il prototipo del giocatore moderno, tutto genio e sregolatezza. Ma al contrario dei ragazzi di oggi, nonostante le sue stravaganze fuori dal campo, nello spogliatoio era un amico capace, una persona su cui si poteva contare, un elemento che rendeva un gruppo compatto e affiatato, un grande uomo-squadra.
Ma Meroni è molto di più, ha rotto il muro di un’Italia conservatrice (…che ancora stenta a cambiare) ascoltava i Beatles e la musica jazz, dipingeva quadri leggeva libri e scriveva poesie. Conviveva con Cristiana, innamorato follemente tanto da presentarsi al matrimonio imposto dai genitori di lei per cercare di fermare la cerimonia.
La sua vita si spegne così, in un attimo, in un istante, in un flash come questo articolo, come i suoi pensieri, come il suo stile.
Il 15 Ottobre 1967, 45 anni fa al rientro a casa dopo una partita di campionato, muore investito.
Alla guida dell’auto che lo investe c’è Attilio Romero, giovane che Gigi ha come idolo, e che sarebbe divenuto poi presidente del Torino. Nel punto in cui fu investito i tifosi di Gigi ancora oggi portano fiori in sua memoria. La domenica successiva alla sua morte si gioca il derby con la Juventus che il Torino vince per quattro reti a zero (cosa che non è più successa). Tre goal sono messi a segno dal suo grande amico Combin che malgrado i 39 gradi di febbre scende in campo ugualmente. In molti sostengono che il quarto goal è stato segnato dalla maglia numero 7, indossata quella domenica da Carelli.
Questo il ricordo del giornalista Luigi Gianoli sulle pagine della Gazzetta dello Sport del 17 ottobre 1967: ‘sia stato, pur così apparentemente truccato ed estroso, l’eroe nuovo, nuovo perché disinteressato e privo di invidia [..] uomo laconico e intelligente, ben diverso dagli abatini o dagli impiegati standardizzati del calcio moderno’.
Brera, tra i più feroci critici, lo saluta così dopo la morte: ‘tu eri giovane e puro abbastanza per non dimenticarti di essere vero pure nelle stranezze’.
Alla fine il miglior ritratto di sè lo dipinge lui stesso. Artista di talento, dipinge sé stesso come un hidalgo, baffuto cavaliere generoso e leale.
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