Catalogna “indipendente”: il futuro del Barcellona è ancora nella Liga?

Catalogna “indipendente”: il futuro del Barcellona è ancora nella Liga?

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Gerard Piqué, forte sostenitore della causa catalana

Dopo le elezioni di ieri in Catalogna il vento dell’indipendenza spira con più forza e intensità. Ma, a livello strettamente calcistico, quali possono essere le conseguenze per il Barcellona? E la Liga può fare a meno dei blaugrana?

Il calore radioso di una Spagna patria di movida, bellezze incommensurabili e patrimoni dell’umanità vive da anni un profondo e sanguinoso conflitto diplomatico interno, una freddezza che inasprisce un clima altrimenti mite e gioioso: da troppo tempo infatti la spinta indipendentista della più discussa comunità autonoma spagnola, la Catalogna, cozza con un governo centrale a dire di tanti ottuso e sbarrato, come un portiere saracinesca che disarma gli attacchi avversari con ogni mezzo possibile. Da Filippo V al dittatore Francisco Franco, sino ai giorni nostri, il percorso delle quattro province catalanofone di Barcellona, Tarragona, Lleida e Girona è sempre apparso in salita, e nel susseguirsi degli eventi storici anche i curvoni stretti non sono mai mancati. Da sempre avvezza a sogni di autonomismo e desiderosa di decidere del proprio destino, la Catalogna ha mosso ieri un importante step verso lidi più consoni al proprio benessere.

In virtù di quelle che El Mundo ha definito “le più importanti elezioni del periodo democratico”, gli indipendentisti hanno ottenuto il primo passo verso il successo: la scissione diviene una meta da raggiungere, dopo anni di proclami e tentativi a vuoto. Una vittoria, invero, a metà: i partiti pro indipendenza, ovvero Junts Pel Si e Cup, hanno ottenuto maggioranza di seggi ma non assoluta, con una particolare “opposizione” nella provincia di Barcellona. Ma l’affermazione resta comunque pesante ed inevitabilmente storica. Le conseguenze di queste elezioni saranno svariate: la Catalogna inizierà, tramite il suo Parlamento, il processo di indipendenza, cercando trattative con l’Unione Europea ma soprattutto con la casa madre spagnola, alla quale però pare piuttosto invisa l’opzione di dover salutare il suo piccolo figlio. Con ogni probabilità il Governo Rajoy, che malvede tale operazione, dichiarerà nulla l’istanza di indipendenza e ne scaturirà un conflitto politico ancor più inasprito e incattivito: entreranno in gioco l’attuale moneta unica e le banche, che prima del voto avevano minacciato di abbandonare la Catalogna al suo destino, dunque seguiranno commissioni europee, figure di rilievo, portatori di equilibrio e diplomazia. Il Re di Spagna intanto resta a guardare, tenendosi fuori dalla mischia e auspicando un salvifico accordo. Ovviamente, l’aspetto che a noi maggiormente interessa e che intendiamo analizzare con più attenzione è quello sportivo, in particolare calcistico. Inutile girarci intorno, la domanda del giorno è la seguente: il Barcellona, squadra del capoluogo che veste i colori catalani, in virtù di questa “ufficiosa” separazione potrà ancora giocare nella Liga BBVA?

Obbligatorio un excursus su un’altra coraggiosa scelta di indipendenza calcistica, quella della Nazionale catalana stessa: La Selecció Catalana, non affiliata in alcun modo né alla FIFA né alla UEFA e quindi non riconosciuta come Nazionale ufficiale, esiste dal 1904 ed ha giocato più di 200 partite nella sua storia. Gioca con regolarità piuttosto coerente dal 1997 e può vantare tra i suoi C.T. anche il leggendario Johan Cruyff, l’unico non spagnolo ad allenare il team, che guidò la formazione dal 2009 al 2013. Sono svariati i giocatori che nel corso della carriera hanno sposato la causa catalana: tra i più importanti si possono citare Sergio Gonzalez, Sergio Garcia e quel Bojan Krkic conteso anni fa anche dalla Spagna e dalla Serbia, prima di diventare una stella cadente. Il coraggio di scegliere il cuore, che batte forte per un ideale di libertà e autogestione. Non dev’essere per forza facile, ma le privazioni vengono compensate dalla felicità interiore. Non pochi a Barcellona sono distanti da questo pensiero: pur giocando (e vincendo) da anni con la Roja, ad esempio Gerard Piqué è un acceso sostenitore dell’indipendentismo catalano, lo ha testimoniato egli stesso partecipando all’importante manifestazione pre-elettorale dello scorso 11 settembre. Anche Pep Guardiola, ora allenatore del Bayern Monaco ma per anni leggenda blaugrana, è dello stesso avviso: l’ex calciatore di Brescia e Roma ha avuto addirittura un ruolo attivo in ambito politico, candidandosi con la lista Junts Pel Si. D’altronde la rivalità sportiva tra Barcellona e Real Madrid è il sunto perfetto, oltre che la sua trasposizione in ambito pallonaro, della faida interna in terra iberica: non di rado ma, anzi, assolutamente di sovente è possibile vedere allo stadio le cosiddette esteladas, ovvero le bandiere catalane. Madrid rappresenta il nemico, il brutto ceffo da sconfiggere, l’aguzzino dal quale liberarsi. Con le buone, possibilmente, ma anche con coraggio e dignità. La lotta non è semplicemente sportiva: qui si parla di vite, dottrine, filosofie e convinzioni diverse. Il calcio assume un ruolo apparentemente collaterale, ma non troppo: il campionato, in fondo, viene spesso e volentieri assegnato ai padroni del Camp Nou. D’altronde è proprio vero: Mes Que Un Club, non solo in ambito polisportivo ma evidentemente anche a livello nazional-popolare.

Ma quindi, a livello concreto, quante possibilità ci sono che il Barcellona possa non giocare più nel campionato spagnolo? Praticamente prossime allo zero. I motivi sono svariati: in primis, un campionato catalano, auspicato provocatoriamente da alcuni politici contrari alla fazione indipendentista, sarebbe di difficile organizzazione oltre che di scontato esito (si parla pur sempre del Barcellona, una squadra che nella scorsa stagione ha messo a segno il secondo Triplete della sua storia). Di contro, anche una Liga senza i blaugrana sarebbe una noia mortale, oltre che molto, molto più povera: tra sponsor, campionissimi, trofei e diritti televisivi, i milioni del Barcellona fanno girare l’economia del calcio spagnolo, oltre a renderne appetibile e appariscente l’appeal. E poi: immaginate davvero una Liga senza El Clasico, ovvero la partita di calcio più importante d’Europa e forse della Terra? Riuscireste davvero a perdervi Ronaldo vs Messi senza batter ciglio? Persino i rivali dei Galacticos sarebbero ben attenti ad evitare una tale scelta autolesionista. In sostanza, la Liga ha una necessità tremenda di trattenere il Barcellona con sé. Si potrebbe pensare ad un rapporto non vicendevole, come quando in una relazione di coppia una metà risulta totalmente asservita all’altra. Ma la storia non è così semplice: anche il Barcellona ha bisogno della Liga, per poter essere riconosciuto ufficialmente in ambito europeo e poter così giocare la Champions League e le altre competizioni ufficiali. Insomma, tra catene immaginarie e interessi socio-monetari più che concreti la strada migliore è quella dell’equità. In un contesto che riguarda anche l’altra squadra di Barcellona, ovvero l’Espanyol, vige in un finto silenzio la non belligeranza. Un trionfo per tutti.

Indubbiamente, la storia ha riservato cambiamenti inattesi anche ai più fini osservatori. E, anche se questo non sembra il caso, gli occhi vanno tenuti aperti. Il Barcellona è qui, e attende il suo futuro. Come tutti i catalani, in fondo sogna un’indipendenza che però difficilmente potrà ottenere in maniera riconosciuta. Intanto, la Liga non cambia. E in effetti, ci azzardiamo a dire, forse è anche meglio così.

 

Fonti: La Repubblica; La Stampa