Saponara: “Per il Milan le lacrime più sentite della mia vita”
Riccardo Saponara ha sin qui vissuto una carriera costellata di alti e bassi, con momenti di esaltazione e altri di sconforto, dagli inizi al Ravenna, fino alla prima esperienza empolese e il grande salto al Milan, forse un passo più lungo della gamba rimediato con un nuovo approdo all’Empoli del maestro Sarri. Saponara, in una splendida intervista rilasciata a ‘La Gazzetta dello Sport‘, ha fatto un’intera panoramica sulla sua vita calcistica e non solo, partendo proprio dal destino che gli ha fatto percorre determinate tappe negli ultimi anni: “Se al mio scopritore Eldo Bencini non si fosse bucata una ruota dell’auto e un amico non lo avesse soccorso e portato al campo dove stavo facendo un provino con la rappresentativa regionale, forse oggi non sarei un calciatore. Mi seguì altre volte, e poi mi portò al Ravenna. Se quando ero al Milan non mi fossi infortunato al ginocchio, non sarei tornato a casa per due settimane a fare la riabilitazione, non avrei visto per tre-quattro sere di seguito Giulia che è di Forlì come me, alla quinta non avrei preso il coraggio per andarci a chiacchierare in un bar e oggi non staremmo insieme. Era destino anche che al Milan andasse così? Non so, ma era uno step necessario della mia carriera e non rinnego neanche una lacrima di quelle che versai. Mi aveva appena preso la squadra per cui tifavo fin da bambino: altro che lacrime sprecate, fra le più sentite della mia vita“.
L’AMICIZIA – Saponara sposta poi il tiro sull’amicizia, componente importantissima nella sua vita, da Nicolas a Tonelli passando per Valdifiori: “Amico? E’ quello che ti ritrovi abbracciato a lui e nessuno dei due si preoccupa di trattenere le lacrime: come con Nicolas, il mio migliore amico da quando abbiamo 8 anni, il compagno di viaggio di una vita quasi in simbiosi, praticamente un fratello, uno di famiglia. Valdifiori? Chiacchierate lunghissime in treno: tutte le settimane insieme da Faenza a Firenze, lui già in prima squadra e io in Primavera, lui tornava ad allenarsi e io a scuola – prosegue a ‘La Gazzetta dello Sport‘ – . Amico è quello che quando rientri a Empoli dal Milan ti dice “Non andare in hotel, vieni da me” e poi ti viene la varicella e lui finché non guarisci va a stare da sua mamma a Firenze, per lasciarti la casa. Lui è Tonelli, la prova che anche se nel calcio è dura avere amici, perché la concorrenza non favorisce i legami affettivi, l’eccezione esiste: Empoli per questo è un posto davvero surreale”.
INVIDIA E TIMORI – L’ex milanista continua poi passando all’invidia dei colleghi prima di concentrarsi sui momenti di paura della sua vita: “Colleghi di categorie inferiori, oppure persone che mi giravano intorno, soprattutto a Forlì. L’invidia è così, fa brutti scherzi: ti porta a riformulare la realtà, a manipolarla, a mettere in giro voci sbagliate. E visto che ci hanno provato in tanti a macchiare la mia immagine, sono diventato ancora più riservato seguendo i consigli di papà. In campo no, non ho nemici: a settembre Iturra si è un po’ arrabbiato, quando ha capito che Colantuono lo stava sostituendo mi ha ripetuto 3-4 volte “Mi cambia per colpa tua, sei contento?”, ma un po’ rideva anche. Quando Ceccherini del Livorno mi diede una gomitata a palla lontana invece non ridevo molto, ma durò poco: il naso rotto si mise a posto, lui è stato un vigliacco e a quello non si rimedia. Mi fa venire l’ansia l’idea di non raggiungere la mia realizzazione calcistica, perché è per forza da quella che passa quella personale. Diventerebbe una condanna, la dannazione di lasciare incompiuto il lavoro per cui penso di essere nato. Chi mi vede da fuori può pensare ad un ragazzo realizzato: sbagliato. Io so di non esserlo e che non mi darò pace finché non lo sarò completamente: realizzato, ma in un grande club.”
PSICOLOGIA – Saponara chiude infine con il rapporto con il padre, fondamentale a livello psicologico nei momenti peggiori: “Momenti brutti? Il primo fu a vent’anni, l’incubo della retrocessione dell’Empoli, due contestazioni: non riuscivo a vedere lontano, il mio gioco era come mi sentivo io, grigio. A papà al telefono dicevo sempre la stessa cosa: “Torno a casa, smetto”. Poi nella finale di ritorno dei play out mi scattò dentro qualcosa, non ho mai capito cosa: forse fu un dribbling riuscito, forse la curva che urlava, ma trovai giocate che neanche sapevo di avere e dentro di me sentii chiaramente che mi aspettava qualcosa di bello. Il secondo momento fu al Milan, il ritornello con papà stavolta era: “Non sono all’altezza”. Psicologicamente toccai il fondo anche più della prima volta: ormai pensavo a come gestire il mio denaro, magari ad aprire un’attività, mi ero convinto che con il calcio non avrei potuto vivere. Ma in cuor mio sapevo che era la mia vita, che ce l’ho nel sangue da quando sono nato: erano pensieri negativi che quasi mi autoimponevo perché non concepivo il fallimento. E la realtà dice che non mi sono arreso”.