Buena suerte Comandante, l’ultimo tango di Sergio Almiron
Si può essere grandi calciatori senza prima essere grandi uomini? Ma soprattutto, quanto contano ancora le qualità umane nella carriera di un calciatore? Sergio Bernardo Almiron è stato certamente un grande uomo prima che un ottimo calciatore, una perla, incastonata suo malgrado in una carriera dai risultati infinitamente più piccoli rispetto a quelli che un simile talento avrebbe potuto raggiungere; ai tanti nostalgici appassionati e tifosi di calcio, resterà comunque il ricordo delle sue giocate e un messaggio ai tanti giovani che si avvicinano a questo mondo, venendone completamente travolti e dimenticando da dove arrivano e quali sono i veri valori della vita, gli stessi che il trentacinquenne di Santa Fè ha sempre mostrato e anteposto ai soldi.
Tradito da un sistema marcio dentro che non sentiva più suo, travolto prima a Bari, poi a Catania da gente senza scrupoli e dignità, disposta a tutto per il proprio tornaconto, dimenticando che all’interno di uno spogliatoio quando le cose non vanno come dovrebbero, non c’è modo migliore che restare uniti per tornare a vedere la luce. Vendersi alla mercè di criminali, o corrompere avversari e dirigenti non era esattamente ciò che si aspettava, eppure non ci chiede quasi mai come possa sentirsi un professionista in quei momenti, scavalcato e umiliato nel profondo, anche se abituato a metterci anima e cuore prima che piedi, assist e gol. Schiena dritta, tipica fierezza sudamericana figlia di uno spirito e una personalità rara, Almiron è stato tutto e niente nei suoi anni in Italia; promessa, meteora, comparsa, protagonista, delusione, senza mai smettere di essere prima di tutto un grande uomo. L’ultimo ad arrendersi quando a Bari mezza squadra aveva smesso i panni del professionista, preferendo vendersi partite una volta intuito che lottare non avrebbe evitato la retrocessione; non è un caso che tra i tifosi biancorossi, Almiron sia stato un idolo assoluto, uno dei pochi a uscire indenne dallo scandalo scommesse che travolse la squadra di Gianpiero Ventura in molti dei componenti. Comandante fiero, umile gregario, uomo squadra e spogliatoio, nella gioia e nel dolore; le vittorie (un campionato di serie B con l’Empoli nel 2005) vanno conquistate giorno per giorno, senza cedere ai ricatti ma lavorando sul campo. Rimpianti zero, c’è da giurarci, dove è andato ha lasciato il segno e un grande vuoto quando ha deciso di andar via; umile e sincero come negli ultimi mesi ad Agrigento al fianco dell’amico Nicola Legrottaglie con la maglia dell’Akragas, dove i continui problemi fisici lo hanno costretto a dire basta con il calcio giocato, perché il ruolo del comprimario non gli è mai piaciuto.
Ci ha messo la faccia sempre e comunque, anche nei fallimenti di una carriera all’improvviso divenuta sorprendente ma evidentemente al di sopra delle sue reali capacità di artista singolare e per questo solitario e complicato, uno vero a prescindere, tormentato nell’animo più che nel fisico. L’eredità che un personaggio come Almiron ci lascia è pesante, come la sensazione di profonda inadeguatezza che il calcio moderno gli provocava di recente; sarà il responsabile dell’area tecnica del club siciliano, ma non sperare che duri appena più del limite sopportabile è pura utopia. Quando avvertirà qualcosa di diverso rispetto al suo essere, toglierà per primo il disturbo, perché prima del successo e dei soldi, contano le qualità umane, una rarità assoluta al giorno d’oggi. Suo padre, Sergio Omar, fu campione del mondo nel 1986 con l’Argentina; lui è stato un campione a metà, senza mai abbassare la testa, né in mezzo al campo né fuori.