Miccoli ai saluti: cuore, talento e Salento
L’esilio dorato ne annunciava la fine imminente. Bisogna partire dagli ultimi calci di Fabrizio Miccoli per ripercorrere una carriera bella e maledetta, condizionata da un carattere non semplice, di quelli che si contrappongono ai signor Sì che popolano il mondo del pallone. Non troveranno spazio le vicende giudiziarie che, nel segno dell’inveterata consuetudine tutta italiana, hanno schiacciato l’atleta, l’artista che sapeva incantare, tanto in provincia quanto in città. Avrebbe potuto fare di più il bomber tascabile ma in fondo il suo sogno, tra mille peripezie, è riuscito a coronarlo: giocare con la maglia del Lecce. In Lega Pro, ma è solo un dettaglio. Ha provato a risalire la china, a riportare passione e calore al “Via del mare” ma ci è riuscito solamente in parte. I salentini, un po’ per sfortuna un po’ per scarsa organizzazione, non sono riusciti a ritornare, con e senza il loro bomber, nel calcio che conta. La carriera, ripercorsa a ritroso, ha avuto un suo punto di svolta a Palermo: in Sicilia è diventato capitano, bomber, leader, trascinatore, negli anni migliori dei rosanero che allora sì, impressionavano la serie A. Gioie e delusioni per la mancata convocazioni di Lippi che lo escluse dalla lista dei “formidabili” 23 (nonostante 22 gol a referto) convocati per i Mondiali di Sudafrica 2010.
Fine di un amore mai sbocciato tra il piccolo e potente attaccante di Nardò e la maglia delle nazionale, indossata in appena dieci occasioni. Un controsenso per un calciatore che in quegli anni, complice anche la carenza di campioni, avrebbe potuto dire la sua. Ma le faccende extracalcistiche tornano e spingono, in una rapida corsa del gambero, a sorpassare per un attimo la parentesi lusitana e tornare alle polemiche risalenti al 2005 e dunque alla tristemente famosa lite con Luciano Moggi, plenipotenziario figuro juventino che di fatto, stando alle confessioni dell’attaccante pugliese, lo costrinse ad accettare il trasferimento in Portogallo, laddove è ancora amato. La Juve, appunto, come la nazionale: una storia naufragata prima ancora di cominciare. Poi Firenze e prima ancora Perugia, per scrollarsi di dosso l’etichetta di attaccante di serie B. Segna, dribbla, scatta e segna ancora in un turbine di velocità, classe, agilità e fiuto del gol. Esultanze sfrenate, corse a perdifiato sotto le curve e maglie lanciate verso le gradinate in festa. Ecco, Fabrizio Miccoli regalava gioia, era la perfetta sintesi del messaggio che il calcio dovrebbe rilanciare con forza. A Terni lo hanno eletto idolo, a Casarano è stato ribattezzato Mara-Miccoli. E al Birkirkara, ultima parentesi di un’avventura sempre in salita, l’hanno salutato con le lacrime agli occhi. Un congedo tra pochi intimi, in uno spicchio di pallone nascosto dal cuoio invecchiato. E già, il tempo ha avuto la meglio sul “giovane” Miccoli. Trentasei anni, l’addio, i rimpianti e un pizzico di malinconia.