A tutto Tavecchio: “Una pistola puntata alla tempia e le lacrime per Kennedy”
I mille volti di Carlo Tavecchio. Il Presidente della FIGC si racconta in una lunga intervista concessa alla gazzetta dello sport per la rubrica “a carte scoperte”:
Qual è stato il vero mestiere della sua vita?
«Devo dire il bancario: il calcio non posso considerarlo un lavoro, e non perché con uno stipendio mensile di 1426 euro più 800 di tredicesima non si vive. Però la banca poi l’ho lasciata perché non la sentivo più mia, il calcio ancora no. Da direttore di banca ho subito due rapine, la prima volta mi tennero chiuso per tre ore dentro il caveau con un mitra puntato in faccia finché non gli consegnai 40 milioni di lire. Ma fu nulla rispetto all’angoscia che provai nel 1975, l’anno del primo famoso sequestro di persona avvenuto al Nord. La ragazza viveva vicino a Ponte Lambro e una banda di calabresi voleva parte del riscatto consegnata da un funzionario di banca. Il presidente della Banca del credito cooperativo non mi lasciò scelta: “Vai tu”. Andai: io e un familiare della ragazza, d’accordo con le autorità locali, salimmo su una Mercedes bianca con una cassetta di legno raggiata che conteneva 250 milioni in banconote da diecimila lire, tutte firmate e legate con filo di rame. Istruzioni per la consegna tramite pizzini: li trovammo in quattro posti diversi, ognuno con un ordine che ci rimandava a un’altra località, fino ad arrivare al ponte della ferrovia di Brivio. Da lì dovevamo buttare giù la cassetta, ma non tutto andò come doveva: trattennero lo zio per una notte e lo picchiarono anche. A me non fecero nulla, ma l’ansia di quelle ore non me la scordo finché campo».
E del Tavecchio catechista cosa ricorda?
«Sono cresciuto in oratorio, sotto la gonna di Don Guido e della zia Maria che era dell’Azione cattolica: mi portava alla messa alle sette e mezza della domenica mattina e mi convinse addirittura a diventare maestro di catechismo. Ero bravino, vinsi pure una gara regionale fra insegnanti, a Brivio: interrogavano i Padri Barnabiti, come premio mi regalarono il libro “Quo vadis?”. Ma già verso i 16 anni capii che non faceva per me, forse stavo anticipando i tempi ma sentivo la necessità di aperture diverse e quel giorno che a Roma vidi Papa Pio XII scendere solennemente da quel po’ po’ di portantina con cui veniva trasportato mi sembrò una cosa un po’ eccessiva, e mi feci un sacco di domande. La seconda svolta fu più che altro una fulminazione: eravamo in un eremo, seduti su un prato, e di fronte a me avevo Don Giuseppe Dossetti con il suo viso scavato e il suo saio liso che parlava di compunzione. Prima di diventare sacerdote era stato una delle anime della “nuova” Dc, fu lui a darmi una risposta definitiva alle domande che mi ero già fatto: un diverso tipo di fede era possibile, anzi necessario».
Sogni giovanili?
«A 27 anni dirigevo già la mia prima filiale di banca, quando ho smesso da vice direttore generale ne sovrintendevo 26 e alla sera andavo a letto con 26 pensieri in testa. Così durante un viaggio in Russia c’era ancora la cortina di ferro degli amici che vivevano là e volevano commerciare legno mi convinsero a cambiare. Fu facile: avrei lavorato meno e ormai in banca era tutto troppo tecnico, non c’era più il rapporto con il cliente che nasceva a pelle, e guardi che concedendo fidi a pelle non ho mai perso una lira. Diventai broker di legname: dalla Russia a Riposto e Pozzallo, in Sicilia, per costruire i pallet che servivano a impalare le cassette di legno per il pesce. Ma il mio vero sogno è sempre stato fare il capo cantiere edile: se guardo il Colosseo mi viene da pensare a come l’hanno costruito, in Africa sono stato un pomeriggio a fissare la diga Kariba sul fiume Zambesi e pensavo «qui l’acqua non comanderà mai più». E il giorno che hanno messo sul tetto di San Siro le due travi da 120 metri, quelle rosse che si vedono all’altezza del terzo anello, io ero lì con il naso all’insù: guardavo le gru lavorare».
Solo calcio, oppure la passione per lo sport è andata oltre?
«Da ragazzino, pallone e basta: aletta destra alla Muccinelli molto veloce, un anno ai giochi scolastici regionali vinsi la gara degli 80 metri. L’altro sport della mia vita l’ho scoperto facendo il militare a L’Aquila, Caserma Rossi, 9° Reggimento Alpini: Ponte Lambro è zona di reclutamento e mi ritrovai nella Brigata Julia non so perché, dalle mie parti mandavano tutti nell’Orobica. Ero uno dei più piccoli, lì tutti ragazzoni alti e grossi, ma la scuola di soccorso alpino comprendeva il corso di roccia e scoprire le pareti del Gran Sasso e della Maiella, dove una volta mi congelai un orecchio, mi cambiò la vita. Ho sempre amato e amo camminare il mare mi piace ma da guardare, non ci metto dentro neanche un piede però il “camminare” andando su per le ferrate, in arrampicata libera, è diventato un brivido che ho continuato a cercare per un bel po’, anche dopo. Il 5 agosto del 1962 ero su per una ferrata, la Segantini sulla Grignetta, quando il mio amico Sergio Brenna che si era portato una radiolina mi fa: “Carlo, è morta Marilyn Monroe”. “Sergio mi dispiace, però guarda giù: o vogliamo morire anche noi?”».
E la politica?
«Ce l’avevo nel sangue: le prime arringhe le facevo già in oratorio a 16 anni e non ne avevo 18 quando diventai segretario della sezione DC di Ponte Lambro, al posto del cavalier Tagliabue che ne aveva 70. Da assessore alla Pubblica Istruzione lanciai la rivoluzione della scuola media consortile, con laboratorio scientifico e una palestra nuovissima per calcio a cinque e basket, e a 33 anni ero sindaco: poltrona contesa da politici di 6070 anni ma Franco Borin da Conegliano Veneto, il più rappresentativo della giunta, ordinò “Lo fa Carlo: se no va ben, lo cambiemo”. Non mi cambiarono per quasi vent’anni, in compenso cambiai io le cose sposando la linea del centro sinistra di Aldo Moro e facendo scalpore con la nomina ad assessore ai Servizi Sociali di una comunista dichiarata. Ma alle elezioni del ‘90, quelle del tutti contro la DC e dell’ascesa della Lega, vinsi le amministrative con il 65%: avevo tenuto il simbolo dello scudo crociato anche se i maggiorenti del partito nazionale mi avevano dato il permesso di cambiarlo, ma quella modestamente parlando era la vittoria di Carlo Tavecchio, non della DC».
Le piaceva andare a scuola?
«Ho studiato ragioneria, ma con un’innata passione per la letteratura che avrebbe meritato facessi il liceo classico: il Dolce Stil Novo di Dante, poi Petrarca, poi Manzoni e il suo concetto di providas ventura che ho amato, poi Camus. Insomma, ho una certa tendenza a un romanticismo “globale”, e non solo nelle letture: se guardavo i western stavo sempre dalla parte degli indiani e l’altra sera, ero a un Inter club con Roberto Vecchioni, mi sono quasi commosso a cantare con lui Luci a San Siro. I miei primi viaggi culturali li ho dedicati alle civiltà antiche, incantato dalla città di Assur, che con la sua doppia cinta muraria resta una lezione di organizzazione, non solo militare, al mondo. Ma forse l’arteche nel tempo mi ha coinvolto di più è la pittura, “colpa” del maestro Salvatore Fiume che ho avuto la fortuna di frequentare: aveva un laboratorio a Canzo, 5 chilometri dal mio paese, e da quando l’ho conosciuto la mia casa è ancora più piena di quadri. Ho lasciato una sua opera agli uffici della Lega dilettanti e ovunque, se posso, metto una copia dei girasoli di Van Gogh. Sono romantico, gliel’hodetto»
Il Tavecchio viaggiatore non si è ancora fermato
«La mia Africa è un film che si inizia a girare nel 1974, quando un mio concittadino che faceva l’infermiere a Erba va a lavorare in un presidio ospedaliero in Togo. Comincia a scrivermi per chiedermi aiuti, un anno dopo vado a trovarlo e nel ‘76, quando divento sindaco di Ponte Lambro, propongo un gemellaggio con Afagnan, un paese poverissimo a 80 chilometri dalla capitale Lomé. Ma Padre Onorio, un sacerdote in missione lì con il sogno di costruire un ospedale, da me aveva bisogno di altro: un rapporto di natura politica con il presidente della repubblica del Togo per far decollare il suo progetto e un rapporto di amicizia che gli portasse un sostegno economico. Mi sono inventato un circolo musicalculturale nel quale ho coinvolto, fra gli altri, Licia Colò, Fausto Papetti, Mia Martini e Sammy Barbot: in cinque anni di incontri proiezione di 500 diapositive sulla missione africana e a seguire spettacolo con l’artista raccogliemmo la cifra che sarebbe servita. Oggi gli ospedali sono due ne è nato uno anche a Tanguieta, in Benin ma un altro grande orgoglio, soprattutto di mia moglie, è aver insegnato agli africani come non sprecare i pomodori. Prima lasciavano bruciare dal sole due raccolti all’anno, oggi producono 40.000 bottiglie di conserva al mese. Vede questo oggetto in ebano? Si chiama baguette du pouvoir, me l’ha regalato il Presidente del Togo e per loro è un simbolo importante. Di solito sopra c’è un animale in avorio, nella mia hanno messo un cappello da prete: per loro sono come un sacerdote».