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L’elevata umidità marca lo scorrere del tempo nella mattina del 22 giugno 1986. L’estate messicana afosa e povera di ossigeno e i 2250 metri sul livello del mare della capitale, dove dorme lo stadio Azteca, si fanno sentire. Il percorso della nazionale argentina verso il giorno della gloria e della rivincita è il solito, partendo dal centro di allenamento dell’America. Mentre la polizia scorta l’autobus nel quale risuona ‘Eye of the Tiger’, scelta da Maradona e compagni per accompagnare, come rituale scaramantico, l’entrata allo stadio, intorno alla struttura si ammassano tifosi argentini e inglesi che, memori dell’astio della guerra di quattro anni fa nelle isole Falklands/Malvinas iniziano già a surriscaldare un ambiente già infuocato. Nessuno sa che di lì a poco si sarebbe scritta la storia.

Argentina-Inghilterra, una sfida nella sfida

Il carattere degli indios contro quello dei gentlemen. Maradona il creativo contro Lineker il killer dell’area. Il passaggio alle semifinali. Una sfida dopo la guerra, stavolta ad armi pari, senza missili, senza navi, solamente in undici contro undici e un pallone come proiettile unico. Uno scontro non solo calcistico ma culturale, con i sudamericani che già durante l’indipendenza del 1810 ricacciarono gli invasori britannici dal quartiere di San Telmo a Buenos Aires. Scontro inasprito dal suicidio della dittatura comandata da Leopoldo Galtieri quattro anni prima a Puerto Stanley. Il prologo ideale per una sfida epica. Lo sguardo del capitano argentino, che aveva caricato i compagni con un’arringa da comandante, cerca da subito quello degli avversari, mentre suonano gli inni. L’immagine del Diez solenne e deciso è forse la più emblematica della sua carriera. A venticinque anni, allo zenit dello strapotere fisico e virtuoso, sapeva che quello era il suo giorno. Il primo tempo scorre come fosse una partita qualsiasi, senza troppi squilli, con Maradona che cerca di scuotere i suoi ma viene atterrato appena accende la scintilla. Niente a che vedere con quanto accadrà nel secondo tempo.

Argentina-Inghilterra, il peccato e l’espiazione di Maradona

La storia è ben nota. Dopo uno slalom gigante Maradona, con davanti una muraglia, cerca sfogo verso destra, va verso la porta e la sorte vuole che Fenwick, difensore inglese, alzi il pallone verso Shilton, che secondo le regole di allora poteva prenderlo con le mani. I venti cm di differenza tra i due vengo però annullati dalla determinazione di Diego, che salta ad occhi chiusi e chiude il pugno della vittoria, lo stesso che alzerà pochi secondi dopo per festeggiare il gol e non dare adito a sospetti. Gli inglesi, tre o quattro, protestano invano. Il peccato originale è stato commesso. Poco dopo è il momento dell’espiazione, l’attimo in cui il protagonista del mondiale decide di lasciare dietro di sé avversari e remore mettendo a segno un gol che ne vale due, quasi come a voler lavare l’immagine di usurpatore che alcuni già gli avevano appiccicato sul 10. John Barnes, sulla panchina inglese, resta abbagliato da quel lampo di luce propria. La storia è stata scritta. È in quel momento che l’Argentina diventa campione del mondo, e a nulla serve il solito gol di Lineker, servito proprio da Barnes. Come a nulla serviranno i due gol della Germania in finale. Il Tango più delizioso mai ballato con un pallone da calcio era risuonato all’Azteca. E oggi, trentun anni più tardi, gli spalti vibrano ancora con quelle urla.

Mariaclaudia Catalano

Giornalista pubblicista, inviata d’assalto classe ‘89, una vita in radio e al tg, content editor per vocazione. Convertita al SEO non posso più farne a meno

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