Spesso, quando leggiamo i giornali o ascoltiamo una telecronaca, sentiamo parlare di “lavoro oscuro” fatto da un calciatore. Una presenza che si vede poco, ma che nell’economia di una partita conta tantissimo. Tutti, quando pensiamo ad una grande squadra che ha vinto tanto, ci ricordiamo del numero, della giocata ad effetto, del colpo che lascia a bocca aperta. A distanza di anni, delle squadre vincenti ci ricordiamo dei Del Piero, dei Totti, dei Maradona, ci ricordiamo di Messi, Cristiano Ronaldo, del fenomeno Ronaldo e dello strapotere fisico di Weah.
Ma il calcio si gioca in 11, e ogni campione ha sempre avuto bisogno di altri 10 compagni affiatati, di chi compensa la mancanza di mezzi tecnici con un cuore grande così, che recupera il pallone e serve la stella, sperando in un numero che vale un trofeo. Questo è il gregario, l’uomo silenzioso che da tutto senza chiedere niente, che lotta con la fierezza di un gladiatore e scarica il pallone con l’umiltà di un operaio. Gregario, dal latino, è “chi sta in mezzo al gregge”, ma questo non lo sminuisce: un pastore, senza il suo gregge, sarebbe un uomo solo in mezzo al nulla.
THE MAKELELE ROLE
Che senso ha dare un’altra mano di vernice dorata alla Bentley se vendi l’intero motore? – Zinedine Zidane
“Suppongo che il fatto che il mio ruolo sia stato chiamato il Makélélé Role voglia significare che ho raggiunto tutto quello per cui ho lavorato“, semplice e d’impatto la dichiarazione di Claude Makélélé a chi gli chiede cosa ne pensa del fatto che un ruolo del gioco del calcio sia stato rinominato col suo nome, privilegio riconosciuto a pochi nella storia, come il Panenka Penalty, quello che noi italiani chiamiamo Cucchiaio. Il francese, nato a Kinshasa, nel vecchio Zaire, attuale Repubblica Democratica del Congo, si trasferisce all’età di quattro anni nei sobborghi parigini di Savigny-le-Temple, dove muove i primi passi col pallone grazie al padre, calciatore del campionato belga. Il suo nome in lingua swahili significa rumoroso, ed è ossimorico se si pensa alla carriera del giocatore, sempre lontano dai riflettori, da interpretare più che da ammirare, tanto che chi l’ha ceduto si è accorto troppo tardi dell’errore madornale cui andava incontro.
Parliamo ovviamente di Florentino Perez. Makélélé venne acquistato dai Galacticos nel 2000, dopo aver girovagato fra Nantes, Olympique Marsiglia e Celta Vigo sempre con ottimi risultati. Con lui arrivarono le soddisfazioni, la Champions League del 2002, successo che ha atteso più di un decennio per essere riportato all’ombra della Casa Blanca: quella squadra era un tripudio di campioni, oberata di talento, tanto che il delirio del presidente Perez arrivò al punto di pensare che a calcio si giocasse solo col fioretto e mai con la sciabola. “Non ci mancherà Makélélé, ha una tecnica mediocre, gli manca il talento e la velocità per recuperare la palla”, queste le parole che campeggiano ad imperitura memoria di ignoranza calcistica sulla pagina Wikipedia del grande capo del Real Madrid.
Così il francese, dopo sette trofei in tre anni, viene ceduto al Chelsea a prezzo stracciato. Per valutare la sua cessione basta pensare alla pietra tombale posta a commento da Zinedine Zidane, uno che di calcio ne mastica abbastanza: “Che senso ha dare un’altra mano di vernice dorata alla Bentley se vendi l’intero motore?”.
Così il centrocampista francese approda al Chelsea, dove passa dal numero 24 al numero 4: i Galacticos nel frattempo di sfaldano, il giocattolo è frantumato e ci vorranno una decade e Cristiano Ronaldo per riportare Madrid sul tetto d’Europa. Tutti i Ronaldo, i Raul, i Figo, i Roberto Carlos del mondo non sono bastati per tenere in piedi la squadra. “Ho imparato a giocare nel mio ruolo al Real Madrid – racconta Makélélé – quando andavamo avanti 1-0 dicevamo ‘ok, chiudiamo tutto’. I quattro dietro e quello di fronte a loro, me, erano concentrati solo sulla difesa per permettere agli altri di giocare come meglio potevano”.
Arrivato a Londra, nel tranquillissimo quartiere di Chelsea, non riesce ad esprimersi con Ranieri: il meglio di se riesce a darlo soltanto l’anno successivo, quando ai Blues arriva uno dei suoi padri putativi dal punto di vista calcistico, Josè Mourinho. L’allenatore portoghese ne fa il perno basso del suo centrocampo a tre, in cui riesce a tornare ai livelli madrileni: “Riguarda tutto l’equilibrio, il mio ruolo è quello di mantenere la squadra bilanciata. Quando Drogba si sposta, vado lì. Quando si sposta Lampard, vado là. Lo stesso con Ballack. Quando una persona esce dal suo ruolo deve esserci qualcuno che lo copre. Quando giochi nella mia posizione devi divertirti, non devi pensare ‘oh no, non posso andare a fare gol’. Devi divertirti a giocare a calcio, entrare in tackle, cedere il pallone. Quando sei più piccolo devi affondare il tackle nel momento giusto. Può essere più alto, più forte, ma se entri in tackle al momento giusto vincerai tu. Il tempismo è tutto”.
E’ lo stesso Mourinho a spiegare l’importanza di quello che sarà chiamato Makélélé Role proprio a Londra, quando in un dialogo davanti ad un pugno di increduli giornalisti si è lasciato andare in dissertazioni tattiche: “Vedete, io ho un triangolo a centrocampo – Makélélé e altri due. Avrò sempre un vantaggio sul 4-4-2 in linea, perché avrò sempre un uomo libero. Tutto comincia da Makélélé fra le linee: può vedere tutto il campo e se non viene pressato ha tempo di pensare. Se viene chiuso un altro dei due centrocampisti resta libero. Se le ali avversarie si accentrano per aiutare, i miei terzini e le mie ali saranno liberi di attaccare. In nessun modo un 4-4-2 può fermare questo schieramento”.
It’s all about timing, come dice il francese, che chiuderà la carriera al PSG. In tempi moderni altri giocatori si sono distinti nel Makélélé Role: quello arrivato più in alto è senza dubbio Sergio Busquets, perno del Barcellona, ma anche Daniele De Rossi nella Roma e Javier Mascherano nell’Argentina hanno dimostrato di potersi disimpegnare nel ruolo di sarto del centrocampo, andando di volta in volta a mettere una pezza dove serve, a leggere il gioco, ad agire con eleganza restando lontano dai riflettori. E’ un lavoro ingrato, ma quando c’è qualcuno che sa farlo può essere la piuma che pende dalla parte della vittoria. O della sconfitta, se l’accompagni alla porta troppo presto.