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FRANCISCO PAVON REAL MADRID – There’s a child sleeping near his twin, c’è un bambino che dorme vicino al suo gemello. Siamo in una delle ballads più struggenti di Jeff Buckley, Dream Brother, splendida chiusura dell’indimenticabile Grace. Anche nella storia che andiamo a raccontare c’è un gemello da sogno e uno più povero, per quanto possiamo considerare povero un calciatore del Real Madrid. Il dream brother è Zinedine Zidane; l’altro, quello che per un po’ è stato il ‘fratello di galassia’ di Zizou, è Francisco ‘Paco’ Pavòn. Eresia: Jeff Buckley e una meteora del Real nello stesso pensiero. Probabilmente avete ragione, ma l’accostamento è venuto guardando un’intervista di Pavòn nella quale si scorge una somiglianza fisiognomica impressionante col compianto artista americano. La storia finisce lì, poi da lì a trovare il parallelo (forzato, lo riconosco: mi perdonerete) con la storia dei fratelli-non-fratelli è stato un attimo.

Da simbolo dello ‘Zidanes y Pavones’ a simbolo di solidarietà sociale: la storia di Paco e di tre anni meravigliosi

Zidane e Pavòn, quelli di “Zidanes y Pavones”, gemelli loro malgrado in quello che era a tutti gli effetti un dream-team. Siamo nei primi anni duemila e sulla poltrona presidenziale del Real Madrid si siede Florentino Pérez, che porta in dote un certo Luis Figo, strappato al Barcellona in quello che è tuttora uno dei tradimenti più gravi della storia del calcio. Inizia un ciclo importante, fatto di super-campioni e vittorie in serie. Nel 2001 arriva Zinedine Zidane, nel 2002 Ronaldo, nel 2003 Beckham. Galacticos, li chiamavano quei buontemponi dei giornalisti, e provate a dargli torto: scudetto nel 2000, nel 2001 in Liga arrivano ‘solo’ terzi ma arriva la novena Champions League, l’ultima prima dell’ossessione dècima superata solo nel 2014. Successi in serie prima di un declino che nel 2006 porterà all’addio (momentaneo) di Pérez dalla presidenza, in favore di Calderòn. Ma nel frattempo è stata una storia fantastica, quella di una squadra capace di dominare grazie all’aiuto di tanti fuoriclasse ma anche di onesti mestieranti come Pavòn, canterano di belle speranze che era riuscito a farsi largo in quel gruppo straordinario. Il Real dei Zidanes y Pavones, appunto, come da nuova, straordinaria definizione data dai fantasiosi periodistas spagnoli.

Paco Pavon, simbolo della classe operaia in Paradiso

Francisco Pavòn Barahona, madrileno, classe ’80, la camiseta blanca tatuata addosso. Formatosi nel collegio di Arroyomolinos, arriva in prima squadra a 21 anni, proprio nell’anno 2001, quello che vede l’arrivo in merengue di Zinedine Zidane. Guarda caso. Vite parallele, due facce della stessa medaglia, una medaglia che finisce al collo di entrambi per 6 volte in tre anni. Supercopa, Champions, Liga, Supercoppa Europea, Intercontinentale e un’altra Supercopa dal 2001 al 2004. Non è un fenomeno, Paco, ma neppure così scarso. Il suo mentore è da sempre un certo Vicente Del Bosque, che lo porta in prima squadra e punta forte su di lui fino all’incredibile licenziamento dell’allenatore, nel 2003, con lo scudetto appena cucito sul petto. Motivo? Non aveva conquistato la Champions, giusto per dare un’idea del livello di ossessione per la vittoria che si respira nella capitale spagnola. Insomma, per Pavòn sono tre anni magici, tre anni nei quali il nostro rappresenta un simbolo della classe operaia in Paradiso. Il Real galactico non è il Barcellona. Anzi, la sua filosofia è diametralmente opposta: qui fare carriera se non costi milionate di euro non è così semplice, ecco perché Pavòn fa ancora più sensazione.

Non ha il carisma di Sanchis, non ha la classe di Guti né le stimmate del predestinato di Raùl e Casillas eppure è lì, combatte per il posto al fianco di capitan Hierro contro lo stesso Sanchis, contro Ivan Helguera (che i più bravi ricorderanno come meteora della Roma), e alla fine di quel triennio vincente avrà accumulato 101 presenze totali, 47 solo nella stagione della novena: praticamente tutte tranne un paio, fra cui la finale Champions contro il Bayer Leverkusen. Lì Paco siede in panchina e da lì guarda il suo dream brother Zidane mentre incornicia con un’incredibile volée di sinistro la finale di Glasgow. Ma quella coppa la alzeranno insieme, Zidane e i zidanes, Pavon e i pavones. Gente come Michel Salgado, Munitis, Helguera, Ivan Campo e Raùl Bravo, che pur non essendo tutti canteranos rappresentavano lo zoccolo duro spagnolo di una squadra infarcita di superstar straniere.

pavon zidane allenamento

Da elemento imprescindibile a reietto

Poi va via Del Bosque e la vita per Pavon si fa dura. Inizia a non essere più titolarissimo, poi pian piano scivola nelle gerarchie fino a perdere il posto da titolare. Una discesa lenta e inesorabile per un ragazzo ancora giovanissimo (nel 2003 aveva solo 23 anni) che paga forse proprio ciò che aveva fatto le sue fortune: l’essere associato a qualcosa che va sfumando insieme a chi se ne fa promotore. Del Bosque è il suo mentore, Florentino Perez il deus ex machina di quel progetto straordinario e ambizioso. Il 2006 è l’annus horribilis dei galacticos. Il Real si piazza secondo in campionato e per il secondo anno consecutivo resta completamente a bocca asciutta, roba che dalle parti del Bernabeu equivale ad una catastrofe nucleare. Florentino Perez dà le dimissioni il 27 febbraio, abdicando a vantaggio di Ramòn Calderòn. Zinedine Zidane gioca (non benissimo) quella che è la sua ultima stagione da professionista, chiusa nel modo più inglorioso possibile in quella notte di Berlino che noi italiani ricordiamo con enorme piacere. Intanto di Paco Pavòn nessuno si ricorda più, anche perché esce dai radar alla fine dell’anno precedente. La prima presenza del 2006 è in Copa del Rey, da subentrato, l’8 febbraio, la seconda ad aprile, sempre da subentrato, contro l’Osasuna. Poi il vuoto assoluto. Nella stagione 2006/07 zero presenze e zero minuti, se si eccettuano le due apparizioni sempre in Copa del Rey, a fine ottobre. Da elemento imprescindibile a reietto in poco più di due anni, l’emblema della fine di un ciclo. Zidane y Pavòn, dall’altare alla polvere praticamente insieme, dall’inizio alla fine.

Gli anni al Real Saragozza e l’addio alla Liga contro il suo Real Madrid

Ma per fortuna Francisco, a differenza di Zizou, è ancora giovane, e ha tempo per spararsi qualche altra cartuccia. Poche, davvero poche, a dire la verità. Accetta il trasferimento in un altro Real, il Saragozza carico di nostre vecchie conoscenze: Matuzalem, il Milito pre-Genoa e pre-triplete, un Ayala ormai a fine carriera, la meteora milanista Ricardo Oliveira. E tanti altri buoni giocatori come Aimar, D’Alessandro, Diogo. Il nostro gioca pochissimo, 8 gare in totale, (non) contribuendo all’inattesa retrocessione dei suoi in Segunda Divisiòn. Nella B spagnola gioca decisamente di più e dà il suo contributo (stavolta per davvero) all’immediata risalita del Real. Il 2009-10 sarà la sua ultima stagione in Liga, chiusa in un modo che definire paradigmatico sarebbe riduttivo: Real Madrid-Real Saragozza, estadio Santiago Bernabeu, un amarcord da brividi che sarà anche oggetto dell’intervista citata all’inizio, rigorosamente pre-partita, ché dopo forse sarebbe stato più complicato parlare. Risultato finale? 6-0 per le merengues e un lungo abbraccio ai suoi vecchi tifosi. It’s never over, my kingdom for a kiss upon her shoulder, anche se “lei” ti dà 6 ceffoni in pieno volto. Solo lui può dirvi se quella sera ha vinto o perso. Ma probabilmente non ve lo dirà mai.

Paco Pavon e l’addio a testa altissima

L’addio al calcio di Paco Pavòn, però, è da vincitore vero. Alla fine di quella temporada il Real Zaragoza lo libera e lui tenta un’estemporanea – e non proprio indimenticabile – avventura in Francia, all’Arles-Avignon, insieme al suo grande amico e co-canterano Alvaro Mejìa. L’Arles si piazza all’ultimo posto e retrocede, Pavòn si ritrova disoccupato e con pochissima voglia di ricominciare. Gli spetterebbe un sussidio di disoccupazione, ma sono gli anni della durissima crisi che mette in ginocchio la Grecia e rischia di ribaltare anche la Spagna. E qui si dividono le strade dei due dream brothers: Zidane nel 2006 aveva lasciato con clamore e con l’onta della testata a Materazzi, uscendo a testa bassa dall’Olympiastadion. Lui invece lascia il suo ultimo segno sul calcio spagnolo senza rumore (non ha mai neppure annunciato ufficialmente il suo ritiro, pensate un po’), ma lo fa a testa alta, anzi altissima, rifiutando di percepire il sussidio: “Fortunatamente non ne ho bisogno. La gente sta vivendo in condizioni precarie, le persone hanno delle ipoteche a cui far fronte. Non me la sentirei di chiedere soldi per non giocare in un momento come questo”. Applausi, sì, ma applausi senza rumore, per quello che possiamo considerare di diritto un eroe silenzioso.
Poi vabbè, la vita va avanti, e gli Zidanes restano Zidanes con luci della ribalta annesse mentre i Pavones restano Pavones e continuano a fare la propria vita, sin ruido. Zizou è diventato un fuoriclasse anche da allenatore, vincendo la undecima al primo colpo, al primo anno (anzi, ai primi 6 mesi) da allenatore del Real. Paco si è ritirato a vita privata, si diletta a giocare a golf ed è tornato ad indossare quella camiseta blanca che idealmente non ha mai mollato, nel Madrid de Veteranos, in un perenne amarcord dei bei tempi andati. Ad ognuno il suo.

di ANTONIO PAPA

Mariaclaudia Catalano

Giornalista pubblicista, inviata d’assalto classe ‘89, una vita in radio e al tg, content editor per vocazione. Convertita al SEO non posso più farne a meno

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